Rif.: At 13,14.43-52; Sal 99/100,2-3.5; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Domenica scorsa il Vangelo ci riportava il dialogo fra Gesù e Pietro, dialogo in cui, alla triplice affermazione dell’amore di Pietro, faceva riscontro il triplice mandato del Signore: “Pasci i miei agnelli”. Pietro dunque fu nominato dallo stesso Gesù: Pastore della Chiesa. Questo però non significa che il gregge sia passato ad altre mani ancora oggi infatti facciamo nostro l’antico canto del salmista: “Riconoscete che solo il Signore è Dio, egli ci ha fatto, noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. E nel Vangelo Gesù ribadisce: “Le mie pecore conoscono la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna ed esse non andranno perdute”.
Pietro ha un compito transitorio e terreno, il Pastore è ancora e sempre Gesù che sorveglia, guida, chiama e la sua voce è inconfondibile perché è la stessa voce dell’uomo, Voce di Dio che si è fatto uomo, Voce debole come quella di un agnello, disperata come quella di una pecora che cerca il proprio figlio, richiamo di Dio che dall’eternità ci cerca e ci segue, che dall’eternità scruta i nostri cuori e vi legge il bene e il male. Voce che risuona nel buio della notte, nell’intimità delle coscienze e dice cose che solo una conoscenza profonda può dire, una conoscenza simile a quella che ha il pastore delle sue pecore che di ognuna conosce la storia, il nome, la forza, le difficoltà.
“L’Agnello sarà il loro pastore…” In questa immagine – così lontana dalla nostra civiltà urbana e tecnologica – l’Apocalisse rivela il mistero grande di Dio, Pastore eterno, che per amore delle pecore si fa Agnello tra gli agnelli, Agnello sacrificale, immolato per il suo gregge. Maggiore comprensione si trae guardando la bellissima immagine che fa da logo a questo Giubileo della Misericordia, nella quale Dio è un uomo che si fa carico di un altro uomo, lo porta sulle spalle, i loro volti si toccano, i loro occhi si confondono (vi sono infatti tre e non quattro occhi) così che Dio guarda le cose con l’occhio di uomo e viceversa.
Essere “portati” da Dio non significa essere costretti a seguirlo – la nostra libertà rimane inviolata e inviolabile – significa invece essere facilitati in un cammino che non nasconde le difficoltà, ma che è reso più agevole proprio da questo essere portati….. verso quella meta, la vita eterna, che Egli ha conquistato per noi con la sua Risurrezione.
Ma non è facile parlare di eternità in un mondo in cui tutto è relativo, tutto fugge, tutto si consuma. Come parlare di eternità quando anche i vincoli più sacri si spezzano e durano sempre meno? Come parlare di vita eterna quando la società si interroga sull’eutanasia (la “dolce morte”) e considera lecito l’aborto? C’è piuttosto da chiedersi cosa vi sia di dolce in una vita che si spegne, in un bimbo cui viene impedito di vedere la luce, in una speranza che muore.
Certo, non è facile seguire Cristo, il suo messaggio è esigente, impone delle regole, richiede sacrificio e rinuncia, ma ciò che Egli promette ha il sapore della vita e della gioia, il gusto dolce della speranza e dell’amore.