Rif.: Sir 3,1720.28-29; Sal 67/68,4-7.10-11; Eb 12,18-19.22-24a; Lc 14,1.7-14
Il libro del Siracide, un tempo chiamato Ecclesiastico – per l’uso che se ne faceva all’interno della Chiesa – fa parte dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Andato perduto nella versione originale ebraica del 190 a. C., è arrivato a noi nella traduzione greca eseguita dal nipote dell’autore, Ben Sirach, intorno al 132 a. C. per gli ebrei residenti in Egitto. Il testo raccoglie una serie di consigli pratici, una celebrazione della sapienza di Dio nella natura e un elogio degli uomini illustri nella storia d’Israele. L’autore si rivolge al lettore come ad un figlio elogiando la mitezza d’animo e presentendola come unica dote che attira la benevolenza degli uomini e di Dio. Nell’umiltà, infatti, si esprime la vera sapienza, quella che deriva non dalla scienza, ma dalla consapevolezza della propria piccolezza di fronte agli altri e a Dio. L’umiltà infatti è la condizione del cuore di chi si sente piccolo, di chi non magnifica se stesso, ma rivolge la sua attenzione agli altri ritenendoli degni di considerazione, di rispetto, di ascolto. Come afferma padre Cantalamessa, un esempio splendido di umiltà ci viene dall’acqua che s. Francesco definì “umile e casta”. Solo all’acqua che si abbassa tanto da penetrare nelle profondità del terreno, è dato di conoscere le radici degli alberi, la trasformazione dei semi, la nascita segreta dei fili d’erba, ma a noi, uomini orgogliosi, che esaminiamo la creazione dall’alto della nostra scienza, non rimane altro che un’osservazione ‘superficiale’ della natura e delle sue meraviglie. “Solo ai miti di cuore Dio rivela i suoi segreti” afferma il Siracide, e il salmista canta Dio come “Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio”. Il Sovrano del creato non è un Dio distante, ma, attento alle vicende umane, Egli volge il suo sguardo sui derelitti, i deboli e li protegge.
A questa catechesi si lega la pagina del Vangelo dove la strana parabola che Gesù narra e il conseguente consiglio di sedere all’ultimo posto potrebbe sembrare una strategia umana per ricevere onori e considerazione, ma dopo Gesù prosegue: “Quando offri un banchetto invita i poveri… e sarai beato perché non hanno da ricambiarti…”. In queste parole c’è il centro di tutto l’insegnamento evangelico: l’umiltà. Quella che unisce e affratella, quella che si pone in ascolto e a servizio dell’altro, quella che nasce da un cuore mite e con mitezza affronta uomini ed avvenimenti.
Forse Gesù intendeva sottolineare che invitando i poveri e gli emarginati si riconosce a tutti una dignità intrinseca che non dipende dallo stato sociale o dalle ricchezze, ma dall’essere uomo e, come tale, fatto a immagine di Dio. La partecipazione ad una mensa è, da sempre, un profondo gesto di familiarità che ci pone allo stesso livello dei commensali con i quali si condivide il pane e il vino, segni questi di amicizia e di gioia. Condividere indica che non ci sentiamo superiori a nessuno e, come poveri tra i poveri, senza attenderci nulla dagli uomini, tutto ci attendiamo da Dio.
Questa autentica umiltà, che è consapevolezza dei propri limiti, implicitamente esalta la divina grandezza e le rende gloria, nell’anima vuota di sé il Signore trova spazio e vi si insedia, così che l’umile è esaltato per la divina grandezza e non per i propri meriti. Non una strategia umana, dunque, ma un grande insegnamento: l’anima veramente grande è quella che al suo interno fa spazio a Dio, è quella che, come l’acqua, abbassandosi sempre più, penetra nelle profondità inesplorate dell’amore divino e ne trae insegnamento, forza e sapienza, quella sapienza che Dio gratuitamente dona a chi lo ascolta con cuore mite ed umile.