Rif.: Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,10-13
La lunga catechesi sulla transitorietà delle ricchezze che ci ha accompagnato nelle settimane scorse, diventa l’accorta invocazione della preghiera introduttiva: “O Padre, abbi pietà della nostra condizione umana…”. Condizione, la nostra, caratterizzata dalla debolezza e dalla precarietà, dalla paura e dal limite, cose che tentiamo di annullare con l’affannosa ricerca del potere e dei beni nei quali riponiamo ogni sicurezza. Grande la nostra fragilità, ma ancor più grande la pietà divina alla quale chiediamo la forza e la sapienza di essere liberati da questa che è la grande tentazione dell’uomo: la cupidigia.
Cupidigia che, se non arrestata, come un cancro cresce e divora ogni cellula sana dell’anima. Così come accade ai ricchi disonesti commercianti, contro quali si scaglia il profeta Amos, i quali vivono con insofferenza i giorni dedicati a Dio, impazienti di tornare ai loro traffici fraudolenti. Il loro animo, impastato di avidità, guarda al povero solo come oggetto da sfruttare per aumentare i propri guadagni. Nei loro confronti c’è la dura affermazione del Signore: “Certo non dimenticherò mai tutte le loro opere” (I lett.). Monito che ancora oggi risuona per scuoterci affinché nell’assillante preoccupazione del presente non dimentichiamo la nostra dimensione spirituale, il nostro eterno futuro.
Il Vangelo invece ci riporta una strana parabola: un amministratore disonesto, dopo aver sperperato i beni del suo padrone, una volta scoperto, tenta un ultimo disperato tentativo di truffa per assicurarsi un agiato futuro. Con perplessità vediamo che Gesù loda un tale comportamento fino a portarlo ad esempio. E’ chiaro, però, che Gesù non vuole lodare la cupidigia o gli imbroglioni, ma metterci sull’avviso: noi che siamo tanti scaltri da ammassare ricchezze per l’incerto futuro terreno non sappiamo poi essere altrettanto furbi nell’accumulare tesori per l’eternità. La parabola ben si adatta alla nostra condizione di creature che nulla posseggono, alle quali tutto è stato affidato per essere amministrato con saggezza. Alla nostra povertà di fondo che è quella di non possedere alcunché se ne aggiunge un’altra, l’uso sconsiderato di quanto ci è stato consegnato: salute, tempo, favorevoli condizioni sociali di intelligenza e benessere. Spesso dilapidiamo sconsideratamente quanto ricevuto, ma Gesù ci mette in guardia, ciò che abbiamo deve essere usato in modo da assicurarci l’eternità. Le ricchezze di questo mondo hanno senso ed utilità solo se usate per farci degli amici, per conquistarci la fiducia e la riconoscenza degli uomini. Il comportamento dell’amministratore infedele ci fa comprendere che senza amici non c’è speranza di futuro. Allora la riflessione ritorna alla povertà: saranno essi, i poveri aiutati in terra, ad aprirci le porte del cielo, sarà il tempo dedicato agli altri che ritornerà a noi come eternità, sarà l’attenzione verso i bisognosi che ci farà avere l’attenzione di Dio, è la misericordia usata per gli altri che si riverserà su di noi.
Questa vita che ci è stata donata deve diventare una vita data in dono e allora l’esempio da seguire non è più quello dell’infedele amministratore, ma di Gesù che ha dato se stesso per noi (II lett.). E’ lui che dobbiamo seguire, da Lui che dobbiamo trarre l’orientamento del nostro cammino ed è Lui che dobbiamo invocare affinché la salvezza si estenda a tutti, poveri e potenti.