Rif.: Sir 35,12-18; Sal 33; 2Tim 4,6-8.16-18; Lc 18,9-1
Le parole del titolo, tratte dalla Prima Lettura, dicono che Dio non ha riguardo per i potenti della terra, né per titoli nobiliari o di studi, né per ricchezze od onori, anzi, il suo sguardo si china sugli umili, i perseguitati, su chi non ha difese su questa terra e tutto si aspetta da Lui. Dio guarda nel cuore dell’uomo e ne scruta profondità e intenzioni.
La seconda Lettura e il Vangelo ci mostrano tre uomini: un fariseo, un pubblicano e s. Paolo che si presentano a Dio, instaurando con Lui tre rapporti diversi: I primi due si trovano nella parabola che Gesù narra “per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
Nel silenzio del Tempio due uomini pregano: il primo, un fariseo, rimane in piedi, ma il suo non è l’atteggiamento del figlio che parla con il padre, ma l’alterigia di chi ritiene di non doversi inchinare. Anche se la sua preghiera inizia “O Dio ti ringrazio”, le sue considerazioni non sono mosse da una reale gratitudine per i doni ricevuti, quanto piuttosto dal non essere come gli altri (che in questo modo egli disprezza e giudica). Segue poi l’elogio di se stesso ed un elenco di precetti osservati scrupolosamente: nulla da rimproverarsi, nulla da chiedere e, si può supporre, nulla per cui dover realmente ringraziare Dio; chiuso nella propria auto-celebrazione, non si rende conto di essere lontano da Dio, le sue vuote parole sembrano ricadere sul pavimento del tempio.
L’altro, il pubblicano, è rimasto inginocchiato in fondo, sente di essere talmente indegno da non osare nemmeno chiedere perdono, ma solo pietà, per quel gravoso carico di peccati che si porta nel cuore: chi, se non Dio, può avere pietà di lui? E un muta invocazione scaturisce dal suo cuore: “Dio, abbi pietà di me peccatore”. Poche parole per dire per dire la sua indegnità, la sua cocente nostalgia di Dio… poche parole che “penetrano le nubi” e arrivano al cuore dell’Altissimo (I lett) commuovendolo e ottenendo, al di là di ogni speranza, non solo il perdono, ma anche la salvezza.
Il pubblicano ha compreso che la preghiera è l’incontro con Colui che scruta le profondità degli abissi e dei cuori, inutili le finzioni o i nascondimenti, bastano la consapevolezza di non meritare nulla e la fiducia di potersi attendere tutto da Colui che tutto può. La preghiera, allora, diventa il cammino dell’uomo che attraversa con coraggio la realtà del proprio peccato per arrivare alla Verità di Dio che ama e salva.
Così s. Paolo, sta per essere portato a morte, la sua vita volge alla fine, ma sa che Dio, che non lo ha mai abbandonato, gli darà un premio per la sua fedeltà. La sua non è la presunzione del fariseo, ma la fede di chi è vissuto per, con ed in Dio ed ogni cosa ha ricevuto da Lui, tutto accettando sia le soddisfazioni che le sofferenze derivate dalla missione che Dio gli ha affidata.
Vediamo, allora che la forza della preghiera non è nelle parole, ma nel cuore di chi si rivolge a Dio. Così come accadde a Gesù, nell’Orto degli Ulivi, che non avendo altro che angoscia e solitudine, con grande umiltà, elevò al Padre la sua breve preghiera, ma quelle poche parole ripetute più volte attraversarono la storia dando forza, in ogni tempo, alla voce degli oppressi e dei deboli, degli innocenti e dei sofferenti, che da Dio attendono giustizia e soccorso.
“O Dio… guarda anche a noi come al pubblicano al tempio, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia…”.