Rif.: 2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3.5; Lc 20,27-38
Sette fratelli sono pronti a morire tra atroci tormenti pur di non venir meno alla Legge dei padri. Il racconto, dal libro dei Maccabei, ci apre al tema liturgico di questa domenica che tratta della risurrezione. Un tema che sconvolge e affascina per il suo proiettarci in una dimensione a noi del tutto sconosciuta, eppure intensamente sperata. La morte è l’incubo che a volte ci sfiora proiettando la sua ombra e i suoi interrogativi sulla nostra vita. Quale il nostro destino? Cosa ci aspetta dopo? Tutto ciò che abbiamo vissuto, sperato, realtà e sogni, tutto finirà in un attimo o continuerà all’infinito?
La risposta ci viene da Gesù: la risurrezione – troppo spesso intesa come prolungamento della vita terrena, con i suoi legami, impegni ed affetti – è invece il ripristino della primitiva condizione di Adamo che aveva come unico interlocutore Dio. Risurrezione è quindi innanzitutto ripristino di una suprema libertà, di una nuova lucidità interiore nella quale sentiremo di appartenere solo a Dio che ci creò e che ancora una volta “ricrea il nostro corpo” dopo che fu distrutto dalla morte.
Gli affetti che ci sono stati tolti, le persone care per il cui distacco abbiamo tanto sofferto, ci saranno di nuovo rese in Dio, ma questa volta potremo amarle di un amore nuovo che non conosce il desiderio del possesso, ma solo la gratitudine per averle, un giorno, avute come dono prezioso alla nostra solitudine.
La risurrezione non è prolungamento della vita terrena, ma in essa affonda le sue radici, Gesù ci dice che si può risorgere per la vita o per la morte eterna, questo è allora il tempo della scelta e del cammino che ci conduce verso una meta o verso l’altra. “E nemmeno possono più morire” – tremenda, questa affermazione di Gesù, che suona come forte avvertimento: la morte che in questa vita, a volte, viene invocata come liberazione, non potrà tornare a liberarci da una scelta sbagliata.
Ma le parole di Gesù continuano donando speranza: “essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”. E se questo mette in risalto innanzitutto la dignità inimmaginabile dell’uomo, ci fa anche capire che la risurrezione non può essere opera nostra, come non lo fu la nostra nascita nel tempo: allora non con le nostre forze, ma dalla risurrezione di Cristo riceveremo la nostra vita nuova ed eterna.
Così, mentre l’anno liturgico si avvia alla fine, con sapienza, la Chiesa ci ricorda che ogni tempo che termina deve rimandarci alla fine e al fine della vita e che essa, pur essendo tempo di preparazione ad un destino futuro eterno ed irrevocabile, trova sostegno nella “buona speranza” che ci viene da Dio secondo le parole di san Paolo che ci animano e confortano: “lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene!”