Rif.: At 2,14.36-41; Sal 22,2-6; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10
Come di consueto, nella IV Domenica di Pasqua, il Vangelo ci riporta al discorso di Gesù sul “Buon Pastore”, nel quale, come un’onda che approda sulla spiaggia e vi ritorna ancora e ancora, Gesù si definisce di volta, in volta: “Porta delle pecore”, “Bel pastore”, “Pastore”. Termini ed immagini difficilmente comprensibili dalla odierna società vittima della tecnologia e sempre più lontana dalla natura. E’ infatti arduo per noi immaginare la vita del pastore così come la vedeva il Signore nel suo tempo terreno, quando il pastore accompagnava il gregge e con esso rimaneva sotto la pioggia o il sole, camminando di giorno e vegliando di notte per difendere le pecore da assalti di predatori uomini o bestie che fossero. Il pastore inoltre si preoccupava che il proprio gregge avesse cibo ed acqua in abbondanza, si faceva perciò carico di condurlo in terreni fertili ed ombrosi. Ma le parole del Signore non possono essere legate a quel tempo e a quella situazione, c’è qualcosa di eterno che accompagna la similitudine da Lui usata e che si intravede nella frase finale del discorso: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Non è solo questione di cibo, di acqua o di luogo riparato, il compito di Gesù, così simile a quello del pastore per quanto riguarda il benessere e la cura del gregge, va oltre: Egli dona la vita al e per il proprio gregge. In Lui non c’è l’interesse patrimoniale dell’avere (il gregge è comunque una ricchezza), ma la generosità del donare, l’annullamento nel donarsi.
E’ il mistero di Cristo che porta i nostri peccati nel suo corpo innocente, che patisce per noi, che dalle sue piaghe ottiene la nostra guarigione, così come sottolinea s. Pietro nella sua splendida lettera. Ed è ancora s. Pietro che nel suo discorso di Pentecoste ribadisce come Gesù, crocifisso dagli uomini, sia stato costituito dal Padre “Signore e Cristo”. A queste parole la gente si sente “trafiggere il cuore” ed è questa la sola risposta, il solo grazie che l’uomo può esprimere al Redentore, lasciandosi “trafiggere” dal pentimento, dal dolore per aver peccato e provocato in tal modo una così dolorosa redenzione.
Una lancia trafisse il cuore di Cristo, una lacrima trafigge il cuore dell’uomo ed in quelle ferite si incontrano l’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio.
Ma, prima di essere Pastore, Gesù fu l’Agnello che prese su di sé tutto il male del mondo e che, mite e muto, si lasciò condurre al macello, offrendosi al Padre in nostro riscatto: “egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta…” (II lettura). Fu la sua vita data per noi a dargli il diritto di chiamare tutti gli uomini di tutti i tempi, ciascuno per nome, con quella conoscenza che gli viene dall’essere vero Dio, in tutto uguale al Padre nella santità e nella potenza, nell’amore e nel misterioso dono di sé. Fu la sua vita data per noi a renderci partecipi della stessa, eterna e straripante vita Dio: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
LR