Rif.: Ml 1,14-2,1-2.8-10; Sal 130,1-3; 1Tes 2,7-9.13; Mt 23,1-12
Numerosi i peccati che il popolo compie, il Signore degli eserciti, per bocca di Malachia, rivendica la sua potenza e la sua gloria, l’onore che gli si deve è profanato: animali difettosi, invece dei primogeniti promessi, gli vengono offerti; i matrimoni fra i figli di Israele e donne straniere inquina la purezza della fede e crea allontanamento da Dio che viene adorato al pari e insieme agli dei pagani.
Le benedizioni dei sacerdoti, che permettono una tale empietà, si tramuteranno in maledizioni per se stessi e per il popolo.
La Legge – un elenco di divieti?
La forte invettiva del profeta è in parallelo con quella che Gesù lancia agli scribi e ai farisei: posti a capo del popolo, essi riducono la fede ad un atteggiamento e la Legge a un idolo pesante da portare. Impregnati di vanagloria ed autocompiacimento si sono allontanati da Dio sottraendogli la gloria e l’onore che a Lui solo sono dovuti.
La Legge, invece – come abbiamo visto la scorsa domenica – trasuda amore, lo insegna, lo pretende, lo estende in un circolo che da Dio va all’uomo e dall’uomo a Dio. Se la si riduce ad un elenco di divieti la si svuota del suo senso e del suo scopo primario: arrivare a Dio e all’uomo attraverso la conoscenza e la pratica dell’amore.
…per portare frutti
Entra così in gioco la responsabilità delle guide del popolo e del popolo stesso, poiché Gesù, pur inveendo contro i capi, dirige il suo discorso alla folla e ai discepoli, ciascuno è tenuto ad osservare e trasmettere la Parola di Dio “qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti”.
La parola è dunque qualcosa di vivo e Dio stesso opera in essa affinché cresca, si sviluppi e porti frutto, ma la affida alle nostre cure e, come una pianta delicata ed in boccio, ha bisogno di aria e di acqua per svilupparsi, così la parola di Dio ha bisogno di preghiera autentica e di carità per portare frutti, se invece è soffocata dall’orgoglio e dalla vanità, inaridisce e muore. Fra le due classi di sacerdoti indegni del loro compito, si staglia, vigorosa, la figura di s. Paolo che scrivendo ai Tessalonicesi si dichiara pronto a dare la sua stessa vita per quella comunità che, ormai, gli è cara come i figli per una madre.
Nelle parole e nella vita, Paolo è l’esempio di una fede vera ed autorevole che lo spinge a donare se stesso per annunciare il Vangelo di Cristo. Nulla ha più importanza per lui, tranne la missione di apostolo che il Signore stesso gli ha affidato. Depositario di una Parola che non gli appartiene, ma che è dono di Dio, Paolo se ne dichiara custode e amministratore fedele.
La miseria della nostra anima
Il suo atteggiamento edificante contrasta fortemente con quello dei Leviti e dei farisei e diviene esempio per tutti quelli che sono tentati di mettersi in mostra per riscuotere stima e ammirazione. Le parole della Scrittura, infatti, sono un monito forte: una fede, una preghiera, una catechesi che non si rivolga a Dio, ma miri soltanto a soddisfare la propria vanagloria è insulto al Suo amore, che attende di incontrare il nostro sguardo, di rispondere alle nostre attese, di sostenere la nostra fragilità. Dio è Padre, ci ricordano sia Gesù che il profeta Malachia, e allora è meglio presentarsi al proprio Padre con la nuda, ma sincera miseria della nostra anima, piuttosto che con l’inconsistente apparenza di una devozione che, come fumo, si disperde al vento.
L.R.