Mc 8, 22-26
Oggi viviamo in una società che ha il culto dell’apparire, l’accento viene messo sempre di più sul benessere, sulla bellezza, sulla forza fisica. Si fanno esercizi sportivi, si cura la dieta, si fanno esami clinici pur di essere sani e vivere bene. Bisogna vivere la vita al massimo. Quando perciò arriva un’infermità è la catastrofe, si dimentica che l’infermità è parte integrante della nostra vita, della nostra condizione umana, del nostro essere mortali e vulnerabili alle sofferenze. In una società vi sono e sempre vi saranno sani e ammalati anche se tutti cerchiamo di dimenticare ciò.
Ed ecco che Gesù getta una luce nuova sulla sofferenza e sul suo valore salvifico. La redenzione dell’uomo, infatti, è avvenuta proprio tramite la sofferenza del Figlio di Dio. E’ evidente allora che per affrontare infermità, dolori, debolezze, caducità è necessaria la luce della fede. La sofferenza psichica o fisica può essere paragonata al buio e si sa che il buio fa paura, rende incerti, deprime, il buio è sinonimo di cecità, di sofferenza, di disperazione, di abbandono.
E proprio della guarigione di un cieco si parla nel Vangelo di oggi. Gesù si trova a Betsàida dove gli conducono un cieco e lo pregano di guarirlo. Gesù lo prende per mano e lo conduce fuori del villaggio. Un incontro a tu per tu, il dono del proprio tempo a colui che non vede.
Molti gli insegnamenti che possiamo trarre da questo episodio. Innanzitutto l’appartarsi di Gesù con il cieco ci dice che non ci si può dedicare ad un ammalato senza impegnarsi, senza dedicarsi a lui completamente, dandogli tutta l’attenzione e la partecipazione di cui ha bisogno in uno stato che lo isola dagli altri e lo relega nella solitudine. Assistenza è innanzitutto “compassione”, “partecipazione”, dimenticanza di sé per partecipare alla sofferenza dell’altro
La guarigione poi avviene gradualmente. E’ un cammino che sottolinea innanzitutto l’incontro con Dio, c’è il desiderio di guarire, ma prima viene la sua compagnia, si può essere esauditi oppure no, nel frattempo subentra l’affidarsi a Lui, il lasciarsi guidare “fuori dai nostri desideri” e lasciar fare a Dio. Solo nell’ottica dell’affidamento la sofferenza può diventare offerta per la salvezza propria e degli altri.
Gesù “prende per mano il cieco”. Un gesto di amore, il classico gesto della “compagnia” che facciamo quando si vuole condividere lo stesso cammino, attraversare lo stesso pericolo o proteggere l’altro che sentiamo più debole. Il gesto umano della condivisione diventa il gesto di Cristo che si fa nostro compagno di viaggio e di dolore. E allora la fede diventa luce, diventa guida e le sofferenze diventano la sfida di un amore più grande e più profondo.
Parlando della sofferenza e della malattia non possiamo non parlare di Giovanni Paolo II che diede con la sua vita esempio luminoso di sofferenza accettata e vissuta con fede e dedizione.
Tutti lo ricordiamo malato durante gran parte del suo pontificato quando, sofferente agli occhi del mondo, ha mostrato che l’infermità fa parte di noi, fa parte della nostra vita e con essa dobbiamo convivere e affrontare la vita stessa. Con il suo atteggiamento ci ricordò il Vangelo della sofferenza, forse la parte più difficile del Vangelo, ma è quella che ci ricorda che Gesù debole e sofferente, mostrò il valore salvifico della sofferenza e diventò più forte offrendo la sua vita in riscatto per tutti noi.
Ma prima di vivere sulla propria pelle la malattia papa Giovanni aveva trattato questo argomento nella sua lettera apostolica “Salvifici doloris” in cui parla del significato cristiano della sofferenza. Inoltre fu proprio papa Giovanni Paolo II, nel 1993, ad introdurre la Giornata Mondiale del Malato e a porla nel giorno dedicato alla Beata Vergine di Lourdes.
In occasione della prima giornata, nel suo messaggio, egli scrisse che non si può “dimenticare tutti coloro che nei luoghi di ricovero e di cura – ospedali, cliniche, lebbrosari, centri per disabili, case per anziani o nelle proprie abitazioni – conoscono il calvario di patimenti spesso ignorati, non sempre idoneamente alleviati, e talora persino aggravati per la carenza di un adeguato sostegno”. Aggiunse che “l’amore verso i sofferenti è segno e misura del grado di civiltà e di progresso di un popolo”.
Fra poco ci accosteremo all’Eucaristia, sacrifico del Signore, la Comunione con Lui sia per noi sostegno nella vita e nella sofferenza e ci ricordi che nel malato ritroviamo l’immagine del Signore che, sofferente vuole incontrarci e condurci “fuori dai nostri interessi” per dirci che se affidiamo a Lui la nostra vita la ritroveremo arricchita di ogni grazia e benedizione.
Don Andrzej Dobrzyński
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