Rif.: 1Re 19, 16b.19-21; Sal 15/16, 1-2.5.7-11; Gal 5, 1.13-18; Lc 9, 51-62
Sappiamo di essere liberi, ma allo stesso tempo sentiamo di essere soggetti alla moda, al giudizio degli altri, alle cose che possediamo o che vorremmo avere, insomma la nostra libertà non è assoluta e l’assurdo è che siamo proprio noi a limitarla con falsi legami. Ma una libertà così condizionata può dirsi tale? La Liturgia di questa domenica sviluppa il tema della libertà alla luce della fede: quando possiamo dirci veramente liberi? La risposta è stupefacente: possiamo considerarci veramente liberi quando ci offriamo a Dio, quando ci consegniamo alla sua volontà, quando non siamo noi a scegliere ma lasciamo che Dio scelga per noi e lo seguiamo. Com’è possibile, ci chiediamo? La risposta ci viene dalla Scrittura: seguire Dio infatti richiede dare un taglio a ciò che ci lega: siano affetti, progetti, ricchezze o altro. E’ quando veramente ci “liberiamo” di ogni cosa che possiamo dirci “liberi”.
Nella prima lettura vediamo che Eliseo, sta arando il terreno con dodici paia di buoi questo ci fa capire la grande estensione del possedimento ed anche l’agiatezza di cui è circondato. Coprendolo con il proprio mantello, Elia lo ha consacrato profeta, ora Eliseo è un chiamato ed un inviato al tempo stesso, perché la vocazione presuppone una missione, Dio infatti ha chiamato Eliseo per donarlo al popolo e perché il popolo benefici del suo esempio, della sua parola, del suo insegnamento. Si è chiamati non per diventare qualcuno, ma per essere donato agli altri.
Prima di seguire Elia, Eliseo uccide due buoi, ne fa cuocere la carne con la legna del loro giogo e la distribuisce al popolo perché la mangi. E’ un gesto dal triplice significato: il primo è che per seguire Dio è necessario “rompere” con il passato (la rottura del giogo) e con le proprie occupazioni, il secondo è che da quel momento tutto si farà in funzione delle necessità altrui (la carne è distribuita al popolo perché si sfami), il terzo è che una volta che si è scelto di seguire Dio, non si ha più bisogno di altro perché Dio è con noi, non ci sono più preoccupazioni perché Dio penserà a tutto e ci guiderà. Il progetto del chiamato è Dio, il suo bisogno è soddisfatto da Dio, la sua attenzione non è più rivolta a sé ma si volge agli altri….
Con Gesù la nostra adesione a Lui, pur rimanendo libera, è certamente più radicale, come si vede nel brano del vangelo odierno: “Seguimi” disse ad un tale e questi rispose “Signore, concedimi prima di andare a seppellire mio padre!”. Gesù replicò : “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. L’esortazione è chiara: chi è chiamato deve essere pronto alla sequela subito affinché nemmeno un giorno o un’ora si frapponga fra la chiamata e l’assenso.
Dio chiama e attende e la sua attesa è la cosa più sacra, più urgente, più impellente di qualsiasi altra cosa. Perché si è chiamati per essere “inviati” al mondo e là annunciare Dio e la sua salvezza, mostrare all’altro il conforto del Suo volto che si china su ciascuno per consolare, sostenere, aiutare…. Così che ogni vocazione è innanzitutto invito a diventare un “portatore sano” dell’amore di Dio!
Amore universale, dinanzi al quale ogni uomo, pur nella sua unicità, è uguale all’altro nel diritto di essere amato, curato, accudito: un solo Dio, un solo Padre che chiede all’uomo di collaborare con Lui nel grandioso progetto della salvezza e da lui si aspetta una risposta simile a quella del salmista:
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
…. nelle tue mani è la mia vita….
L.R.
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