Rif.: Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-19; Lc 12,32-48
La Liturgia di questa domenica si sofferma sulle virtù cardinali della fede e della speranza: fede in Dio e speranza nella sua promessa di salvezza.
La prima lettura ci riporta alla lunga notte del riscatto, all’inizio del grande Esodo, quando la fede dei padri, così forte da attendere la salvezza con fraterno spirito di preghiera e di condivisione, fu premiata. In continuità con essa la lettera agli Ebrei (II lett.) ci rimanda alla fede di Abramo e di Sara che si mantennero fedeli anche quando gli accadimenti e le situazioni sembravano andare contro ciò che Dio stesso aveva promesso.
Come quando fu pronto a sacrificare il suo unico figlio, proprio quello che avrebbe dovuto dargli la numerosa discendenza, appena Dio lo richiese. Inoltre Abramo fu un “migrante” per vocazione, Dio infatti lo invitò a lasciare la sua terra, la sua casa ed andare altrove perché il suo cuore fosse libero da ogni legame di interesse o di attaccamento a qualcosa.
In questo continuo errare Abramo, in qualunque terra andasse, si sentì “straniero” e “pellegrino” e comprese che la vera terra promessa è quella celeste, là dove Dio attende gli uomini. Abramo è perciò giustamente considerato il prototipo dell’uomo di fede. Fede che è “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”.
E’ il Vangelo ad illuminare questa frase della lettera agli ebrei. La fede infatti è alla base della nostra speranza. Il servo fedele di cui parla la parabola si comporta bene perché crede nel ritorno del padrone e sperando lo attende, anzi è così sicuro del suo ritorno da comportarsi come se questi fosse già presente.
L’insegnamento che ne deriva si applica anche a noi oggi chiamati a sentirci “pellegrini e stranieri” su questa terra che non ci appartiene, come non appartiene a questo fuggevole tempo la nostra vita. Essa infatti si svolge nell’attesa di Cristo che di sicuro tornerà come ha promesso. E’ in Lui che la nostra vita troverà compimento e fine nel frattempo, però, è necessario rimanere fedeli a Dio, rinunciando al male, come abbiamo promesso nel nostro Battesimo.
Il Regno è il luogo teologico in cui le promesse di fedeltà di Dio e dell’uomo si fondono e si compiono, è il momento dell’eterno incontro con Dio per il quale vale la pena di attendere, di rimanere fedeli, di correre pronti al suo arrivo improvviso.
Anche in questa domenica la Liturgia ci invita a distogliere lo sguardo dal transitorio per fissare lo sguardo “lassù dov’è Cristo seduto alla destra di Dio”, poiché quando meno ce lo aspettiamo la nostra vita ci verrà “richiesta”. Siamo infatti chiamati a “ridarla” perché essa non ci appartiene: noi siamo amministratori della nostra vita. Di essa dobbiamo rendere conto, anzi siamo chiamati a far fruttare nel bene tutti i doni che Dio ci elargito: “a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più”
Il vecchio Catechismo recitava “L’uomo è stato creato per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e goderlo, poi, nell’altra in Paradiso”. Esso sembra ormai antiquato e fuori moda, preferiamo rivolgere la nostra attenzione e cura, a ciò che – pur essendo fugace – ci dà l’illusione di essere fondamentale.
In questo tempo di vacanze e di spensieratezza, quando maggiore è il pericolo di essere travolti dalla superficialità, la Liturgia ci ricorda con amore che la felicità eterna è talmente grande. Vale la pena per essa di abbandonare qualsiasi tesoro che non potremo portare con noi e attendere fiduciosi il ritorno di Colui che sempre bussa alla nostra porta e attende discretamente di essere invitato ad entrare!
“Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me”(Ap 3,20).
LR
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