Rif.: Sir 3, 17-20.28-29; Sal 67/68, 4-7.10-11; Eb 12, 18-19.22-24a; Lc 14, 1.7-14
Se noi potessimo penetrare nelle profondità del grembo materno vedremmo il miracolo della vita fiorire e formarsi, se noi potessimo scendere all’interno della terra potremmo guardare il seme trasformarsi in radici e poi in un albero che cresce e si innalza. Se noi potessimo scrutare le profondità del cuore umano vedremmo riflessi negli altri i nostri stessi sentimenti, le nostre stesse aspettative, i nostri desideri. Gli esempi ci portano a concludere che la conoscenza di qualunque cosa o persona richiede uno “scendere”, un “abbassarsi”, un “penetrare” nella condizione dell’altro per renderne possibile la comprensione, il rapporto, la giustificazione. E’ la strada percorsa da Dio che nel suo Figlio Gesù si è abbassato fino a penetrare nella nostra condizione di fragilità e di morte, e nel suo abbassamento ha acquisito una comprensione assoluta dei nostri sentimenti e della nostra ignoranza: “Non sanno quello che fanno” … Dice Gesù al Padre nell’apice della sofferenza, ma anche dell’umiltà. L’umiltà di Dio! Guardando alla vita di Cristo, infatti, vediamo che la nostra salvezza è dovuta al suo abbassamento, in Lui Dio ha stipulato non solo una alleanza nuova (cfr. II lett.), ma un nuovo modo di mostrarsi all’uomo. Così se nell’Antico Testamento la sua teofania era accompagnata da fenomeni terrificanti quali, tuoni, lampi, terremoti, in Cristo Dio si mostra con il volto di un uomo, un volto che sorride, piange, soffre e comprende. E anche i suoi gesti sono quelli di un uomo, vediamo infatti che durante la tempesta, quando Pietro provando a camminare sulla acque viene colto dal timore, Gesù gli tende una mano e lo tira su. Anche noi durante la Messa ripetiamo inconsapevolmente lo stesso gesto quando ci scambiamo il “gesto della pace”, stringere la mano al vicino infatti vuol dire molto più di un saluto, vuole esprimere amicizia, pace, disponibilità all’aiuto reciproco, insomma vuol dire “darsi una mano” nel senso vero dell’espressione. Cristo però ci ha aiutati non dall’alto della sua condizione divina, ma dal basso della natura umana per dirci che la fratellanza nasce dall’umiltà di sentire l’altro fratello, in tutto simile e pari a noi. Si potrebbe obiettare che anche una persona superba aiuta gli altri, ma il suo aiuto è condito dal disprezzo, è accompagnato dall’alterigia di sentirsi superiore, è inquinato dalla tentazione di aiutare sì … ma a patto che l’altro impari la lezione, che si senta obbligato e riconosca la propria inferiorità. Nella Scrittura la condanna del superbo è durissima e nel libro del Siràcide oggi leggiamo: “per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. Il sentimento che più offende Dio è infatti la superbia essa ci trascina in alto, ci fa sentire quasi in competizione con Dio, vuole nascondere ai nostri stessi occhi la debolezza e la caducità di cui siamo impastati e ci fa sentire quasi semidei. L’umile invece, consapevole dei propri limiti, si rivolge al Signore e ne attende l’aiuto, la provvidenza, il perdono e a Lui affida se stesso e la propria vita. E Gesù nel vangelo raccomanda: “… chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Perché l’umiltà avvicina a Dio e ci assimila a Lui, nell’umile noi incontriamo lo sguardo di Cristo Uomo tra gli uomini, sofferente tra i sofferenti, Crocifisso tra i crocifissi, Lui che è Dio da Dio, il Figlio amato del Padre.
Con contrizione preghiamo con la Chiesa: “O Dio, …, fa’ che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa”.
L.R.
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