Rif.: Sap 9,13-18; Sal 89/90,3-6.12-14.17; Fil 9b-10.12-17; Lc 14,25-33
La liturgia di oggi affronta il tema della croce e non solo quella del Signore, ma di chiunque voglia dirsi suo discepolo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Parole dure che non illudono: il cammino cristiano non può dirsi tale se non segue le orme del Figlio di Dio e della sua Passione dolorosa. Un mistero profondo quello della sofferenza che investe ogni uomo, dal potente al povero, dal delinquente alla vittima, dal vecchio al bambino. Mistero che non comprendiamo e dal quale vorremmo fuggire ma al quale Gesù ci chiama e ce lo indica come la strada che porta a Dio e non solo. Nel Vangelo, infatti Gesù indica l’accettazione della croce come progetto di vita: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e vedere se ha i mezzi per portarla a fine?” Non bisogna andare in cerca della croce, ma accettarla quando essa ci viene incontro all’improvviso e sotto le forme più inattese. E’ il caso di Filèmone – padrone di Onèsimo, schiavo ladro ed infedele – esortato da Paolo, in nome di Cristo, ad accogliere lo schiavo ribelle non come un servo come fratello carissimo. Una richiesta che sconvolge non solo il costume dell’epoca, ma anche la giustizia umana: il colpevole non solo non sarà punito, ma riacquisterà la libertà, la dignità e un impensabile rapporto di fratellanza con il suo padrone. Anche in questo caso non c’è altra spiegazione, né potremmo comprendere la richiesta di Paolo se non guardando a quella Croce che ci ha reso fratelli, che ci pone agli occhi di Dio su un piano di uguaglianza non solo fra noi, ma con il suo stesso Figlio, ciascuno abbracciato alla propria croce, ciascuno disposto a compiere la Sua volontà che è al disopra di ogni nostro pensiero. Il caso di Filèmone ci aiuta a comprendere meglio cos’è la croce agli Dio, non mera sofferenza fisica, non ribellione, ma silenziosa e amorosa accettazione del pensiero di Dio. A Filèmone, ad esempio, non è richiesta la sofferenza fisica, ma l’accoglienza dello schiavo come il ritorno gioioso di un fratello perduto ed ora ritrovato. A Filèmone infine è richiesto di rinunciare ai propri diritti, al modo di pensare, all’appartenenza sociale, per rendersi disponibile al comandamento di Cristo: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Il Vangelo allora si offre a noi in una nuova visione, quando Gesù parla dell’uomo che prima di compiere un’impresa si ferma ai riflettere sui mezzi che ha disposizione, non si riferisce alla disponibilità finanziaria, ma alla capacità di rinunciare a se stessi. La forza dell’uomo si misura non in rapporto alla capacità fisica di compiere un’impresa, ma in base alla capacità di lasciarsi guidare da Dio. Fermarsi a riflettere vuol dire anche pregare per ottenere la forza di “dare un taglio” a ciò che ci tiene legati, a liberarci di noi stessi, affinché, come dice il Vangelo, “una volta gettate le fondamenta” siamo capaci di completare l’opera che Dio vuole da noi. E sentiamo che parlare di croce è parlare di Dio, del nostro rapporto con Lui che non è solo credere in Lui, ma vivere come Lui , con i suoi stessi sentimenti di misericordia, di giustizia che supera la nostra giustizia perché varca il confine “del dente per dente” e si addentra nella comprensione dell’altro e in un amore che non ha confini e che è pura, assoluta Carità, è Dio stesso.
L.R.
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