Rif.: Am 8, 4-7; Sal 112; 1Tm 2, 1-8; Lc 16, 10-13
Il libro del profeta Amos sembra risalire al 760 a.C. e anche allora, come oggi, la fede in Dio traballa di fronte all’interesse economico. Il profeta lamenta l’insofferenza verso i giorni di festa religiosa quando ogni attività commerciale era sospesa. Giorni che ai più sembravano tempo sprecato perché impedivano di vendere con bilance false per meglio imbrogliare i più poveri e gettare così nell’avvilimento e nella fame famiglie intere. Allora come oggi la ricchezza è in mano di pochi e la povertà generalizzata a molti. Ma le letture non fanno un discorso sociale e mettono l’accento piuttosto sul rapporto personale che si instaura tra ciascun uomo, ricco o povero che sia, e Dio. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una scelta che deciderà del nostro destino futuro: Dio o la ricchezza.
Gesù ci mette in guardia: nel cuore dell’uomo non possono trovare posto due affetti contrastanti fra loro, se si amerà Dio si odierà la ricchezza e viceversa, la loro convivenza è impossibile. Quando si ama la ricchezza infatti mettiamo le nostre esigenze e il nostro egoismo al primo posto, da ciò consegue il menfreghismo per gli altri, il disprezzo del prossimo, il calpestare i diritti altrui per fare largo ai propri interessi. Vediamo bene come tutto questo sia in netta contraddizione con il sentire e l’agire di Dio come ci ricorda il versetto alleluiatico: “Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”.
Dio è dono! Dio si dona! senza riserve, senza calcoli, senza remore, totalmente e solo in vista del nostro bene. Dio non ci dona avanzi o briciole del suo pasto, Dio ha donato se stesso al punto da farsi Cibo, Pane per essere consumato, quasi per annullarsi in noi perché noi diventassimo come Lui. Noi non possiamo salvarci con il danaro, non possiamo salvarci senza Cristo che è “il mediatore fra Dio e gli uomini …(e)… ha dato se stesso in riscatto per tutti” (II lett.), non possiamo salvarci senza quelli che avremo aiutati, soccorsi, beneficati, curati, visitati e consolati.
Nell’assillante preoccupazione del presente dimentichiamo la nostra dimensione spirituale, il nostro eterno futuro. Paradossalmente di quanto ci affanniamo ad accumulare, nulla ci appartiene e verrà lasciato ad altri, mentre ciò che è veramente nostro, ciò che ci porteremo dietro, è quello che avremo donato.
Gesù nel Vangelo loda l’amministratore disonesto che, pur di trovare un rifugio, dopo il licenziamento truffa ancora una volta il proprio datore di lavoro. Egli si preoccupa di farsi degli amici che lo accolgano, che si ricordino della sua generosità, anche se quanto dona appartiene al padrone. Così noi, solo se avremo donato a larghe mani quanto Dio ci ha donato in capacità e in tempo, potremo ritrovarci con qualcosa da portare nell’eternità.
Dobbiamo stare attenti perché Dio non si scaglia contro il lavoro e contro l’onesto guadagno di un padre che si preoccupa di sostentare la propria famiglia, ma vuole che nulla sia anteposto a Lui, alla lode che gli spetta, all’invocazione che nasce da un cuore puro e sincero che invoca misericordia, provvidenza, perdono. Nessun affare si frapponga mai tra noi e il fratello bisognoso. Mettere Dio al primo posto significa non distogliere mai il cuore da Lui e lo sguardo dai fratelli. Mettere Dio al centro della propria vita, questo significa ritrovare lo “spirito” delle feste religiose perché il tempo che viviamo diventi celebrazione del tempo che Dio ci dona!
L.R.
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