Rif.: Ab 1, 2-3;2, 2-4; Sal 94/95, 1-2.6-9; 2Tm 1, 6-8.13-14; Lc 17, 5-10
Perché Dio non interviene? Perché guarda insensibile la sofferenza dei bambini, dei poveri, delle donne, delle vittime dei soprusi, della violenza, delle malattie? Le drammatiche domande del profeta Abacuc, sono le stesse che da sempre l’uomo si pone di fronte alle disgrazie, alle calamità naturali, alla guerra, insomma di fronte a ciò che genera sofferenza o che è frutto di ingiustizia e di prevaricazione. Con solennità Dio risponde che la giustizia arriverà, vi sarà per il male una scadenza improrogabile e allora: “soccomberà colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” e ancora “Se indugia, attendila” La Liturgia si addentra così in una profonda catechesi sulla fede.
La fede autentica, non interroga Dio, non vuole forzargli la mano, ma si arrende di fronte alla sua volontà e ne rispetta i tempi. Come scrutare infatti le motivazioni di Dio? Noi giudichiamo le situazioni e gli eventi sullo sfondo di un tempo limitato e mutevole, valutiamo le persone con il nostro metro di giudizio che non ha nulla a che vedere con quello di Dio. La fede allora diventa sinonimo di pazienza perché sa attendere, rimettendo all’intervento divino le sorti degli uomini e della storia.
Ci accorgiamo così che la fede vera non è quella che si dice a parole, ma quella che si vive giorno per giorno, che si dimostra con l’obbedienza, che si coltiva e cresce nell’umiltà. La fede è quella che ogni giorno canta le lodi dell’Altissimo riconoscendolo come “roccia di salvezza”, come il “Signore che ci ha fatti” e si lascia guidare da Lui con la stessa fiducia che il gregge ha nel proprio pastore (Sal responsoriale).
La fede è umana e divina al tempo stesso, non a caso è chiamata virtù “teologale”, perché pur nascendo e vivendo nel cuore dell’uomo è diretta a Dio, a Lui è ancorata, da Lui discende.
“Accresci in noi la fede!”, chiesero infatti gli apostoli a Gesù e quelle parole diventano la preghiera di ogni uomo che sperimenta la difficoltà e la radicalità dell’esigente messaggio evangelico. Come potremmo andare contro il nostro egoismo, contro l’ira che si scatena in noi imprevedibile e funesta? Come tacere quando la voglia di criticare, sminuire, disprezzare il prossimo diventa in noi urgente? Come tutto questo potrebbe avvenire senza il soccorso e l’aiuto di Dio stesso? Ma allora la fede dipende da noi o da Dio e perché alcuni credono e altri no?
La risposta è in noi stessi e nelle difficoltà che abbiamo ad accogliere questo prezioso e fragile dono. Quanti i dubbi e i pregiudizi che si pongono come ostacoli alla fede, quanta superbia nella nostra intelligenza che malvolentieri si piega all’obbedienza, all’attesa dell’intervento di Dio! La fede è sì dono, da chiedere incessantemente con fervore e costanza, ma richiede la nostra docilità, la nostra accoglienza, la nostra umiltà! Dio e l’uomo si incontrano proprio nel “bene prezioso” della Parola e della Fede di cui parla Paolo a Timoteo (II lett.), un dono da custodire e coltivare con l’aiuto dello Spirito Santo. E’ Dio a parlare, ma è l’uomo che ascolta e con fiducia obbedisce come un servo al suo padrone senza pretese o vanto, oppure si ribella e va in cerca di altre strade. La nostra fede è autentica se, pur nascendo nel nostro cuore, si àncora in Dio e si lascia accompagnare dall’umiltà, dal servizio, dalla docilità, dalla consapevolezza che quando avremo fatto tutto quello che ci è stato ordinato non potremo dire altro che: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” e attenderemo con pazienza che Dio, con i suoi tempi, completi la sua opera in noi e nel mondo.
L.R.
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