Rif.: 2Re 5, 14-17; Sal 97/98, 1-4; 2Tim 2, 8-13; Lc 17, 11-19
La preghiera di Colletta ci mette in guardia: evitiamo di cercare Dio solo per la salute del corpo, Egli infatti è disposto a darci ben più di una provvisoria guarigione che, prima o poi comunque, non ci evita la morte. Oltre il corpo c’è l’anima ed è questa che può innalzarci a Dio portandoci alla sua conoscenza .
E’ infatti nella conoscenza, nella sperimentazione di Dio che la fede affonda la sue radici: ne troviamo traccia già dalla Prima Lettura dove si narra la guarigione del re Naàman che, lebbroso, si rivolge ad Eliseo per essere guarito.
Il profeta non si comporta come uno sciamano, non compie riti, non si agita, non danza, non grida, anzi manda un servo a dirgli di bagnarsi sette volte nel Giordano. Trovandosi guarito Naàman esclama: “Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”. E’ attraverso le opere di Dio che l’uomo arriva alla conoscenza di Dio e da questa alla “riconoscenza”. Questa ulteriore progressione spinge a “tornare” (ricompare il leitmotiv del “ritorno” o “conversione”) e ad instaurare con Dio un rapporto di gratitudine che ne canta la bontà, la misericordia, la compassione: “Cantate al Signore un canto nuovo perché ha compiuto meraviglie” è la riconoscente preghiera del salmista.
Opere che Cristo è venuto a rendere evidenti e tangibili come è narrato nel brano odierno. Dieci lebbrosi, tenendosi distanti, secondo le prescrizioni dell’epoca, invocano la guarigione. La condizione del lebbroso era infatti penosa, oltre alle sofferenze infatti, egli era soggetto al pubblico disprezzo e disonore perché ritenuto punito da Dio per i propri peccati. Obbligato ad andare in giro con vesti lacere, simbolo della lacerazione da Dio e dalla comunità, egli era letteralmente un emarginato, uno “scomunicato” costretto a dichiarare gridando la propria condizione di “impuro”.
Gesù apparentemente sembra non avere per loro una particolare cura e ordina di recarsi dal sacerdote affinché verifichi la loro condizione e, dichiarandoli sanati, li riammetta in seno alla comunità religiosa e sociale. Mentre essi camminano si ritrovano guariti ed uno solo, un samaritano, considerato straniero e nemico, torna indietro a ringraziare Dio nella persona di Cristo, infatti gli si prostra davanti e lo ringrazia. Non sono stati guariti tutti? Si chiede Cristo. Continua così la riflessione sulla fede che ci spinge a domandarci quando essa può dirsi veramente tale. Fede è quel bisogno di rivolgersi ad una potenza superiore affinché risolva problemi e malattie e poi basta così? O non è piuttosto acquisire la consapevolezza che Dio ascolta ed interpellato si fa ancor più vicino all’uomo? Allora la fede vera è quella che ci fa passare dalla richiesta al ringraziamento e ci fa riconoscere in Cristo colui che il Padre ha inviato per darci molto più della guarigione fisica: la salvezza eterna. Fede è prostrarsi con il lebbroso per rendere grazie, è unirsi a Cristo che ha fatto di tutta la sua vita un “rendimento di grazie” anche quando il suo corpo sofferente veniva offerto e donato per la nostra salvezza. La fede ci fa partecipare al sacrificio eucaristico come al “supremo rendimento di grazie” a Dio per Cristo, con Cristo e in Cristo.
Fede è ringraziare per gli innumerevoli doni ricevuti quali la vita, la bellezza che ci circonda e l’arte che la esprime, l’amore e la musica che lo canta, le persone che incontriamo perché ognuna ci arricchisce di esperienza e di sentimenti. Fede è ringraziare anche per il dolore e la malattia che ci permette di misurare la nostra debolezza, che ci fa avere bisogno degli altri insegnandoci che nella vita si dà ma si riceve anche ed in questo equilibrio in cui si alternano gioie e dolori scorre il nostro tempo terreno, tempo della fede e della speranza, tempo della conoscenza di Dio che ci viene incontro. Tempo del nostro grazie riconoscente!
L.R.
Fot. Brennan Wolf/Unsplash.com