La parola di questa IV domenica del tempo ordinario, ci racconta nella prima lettura della vocazione del profeta Geremia, quella di una vita “predestinata” a un servizio, a cui era stato chiamato da tempo. Ci fa innanzitutto prendere coscienza che nessuno di noi è nato per caso, o peggio come dicono alcuni, per sbaglio.
Noi cristiani crediamo che Dio ci ha pensati e amati da sempre, come Geremia “conosciuto e consacrato” prima del concepimento. E di fronte alla responsabilità di un compito, che è affidato ad ognuno di noi, si avverte come per il profeta, tutta la nostra inadeguatezza: “io non so parlare, perché sono giovane”. Ma quando, invece, ci rendiamo disponibili all’azione di Dio nella nostra vita, anche di fronte alle difficoltà che incontreremo, abbiamo la fiducia che Dio non ci abbandona, e ci assiste donandoci la forza per portare avanti la nostra missione quotidiana.
Nel Vangelo Gesù è ritornato in Galilea, tra la sua gente, e come al solito, di sabato entra in Sinagoga per la lettura della Torah: il suo è un insegnamento nuovo, non come gli scribi, ma come uno che ha autorità, con segni e prodigi, e tutti non possono fare a meno di riconoscere che le sue parole sono di grazia. Come quelle che escono dalla bocca del profeta Geremia, così è per Gesù, che riceve lo stesso trattamento, quello dell’ostilità e del rifiuto. Perché per loro è e rimane sempre il “Figlio di Giuseppe”, è Gesù, il falegname: così non riescono a vedere in lui colui che porta l’annuncio dell’anno di grazia del Signore.
Il vangelo ci fa prendere consapevolezza cosa significhi avere un cuore chiuso, che non si apre alla novità, alla meraviglia, che non vuole smuoversi di un millimetro dalle sue convinzioni, come per i suoi concittadini di Nazaret. E la dimostrazione è quando Gesù li tocca nel loro intimo, citando i due episodi, della vedova di Sarepta e di Naamàn i lebbroso: mentre loro, che erano stranieri, ma hanno saputo riconoscere nel profeta l’uomo di Dio, per i suoi compaesani la risposta non è quella di mettersi umilmente in ascolto, di rivedere le proprie posizioni, mettersi in discussione, ma c’è la reazione violenta, lo sdegno, di chi è ferito nell’orgoglio.
E il risultato di questo atteggiamento, è che il Signore può fare ben poco, “non poté fare miracoli”, in quanto avevano le loro risposte già pronte, indiscutibili.
E non sciupiamo anche noi l’occasione di vedere Gesù passare nella nostra vita e di lasciarlo andare come quando “egli passando in mezzo a loro, si mise in cammino”, ma cercando di cogliere il Signore che viene a compiere in noi oggi la sua salvezza, che trova il suo pieno compimento, come ci dice san Paolo, nell’amore, nella Carità che non avra mia fine.
Padre Michele Messi, passionsta
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